Tre interrogativi da sciogliere, prima di bruciare i rifiuti nei cementifici

 Il ministero dell’Ambiente annuncia un decreto per utilizzare Combustibili solidi secondari nei forni degli impianti che producono cemento. Risponde così a un’esigenza dell’industria del settore, ma rischia di azzerare le buone pratiche in tema di riduzione dei rifiuti. Senza considerare l’impatto delle emissioni sulla salute dei cittadini

di Luca Martinelli della Redazione di Altreconomia

Pare proprio che i cementieri ce l’abbiano fatta. A margine di un convegno, il 12 aprile, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha annunciato che entro la fine del mese dovrebbe essere pronto un decreto “che prevede l’impiego di combustibili solidi secondari (Css, vedi box) nei processi industriali, in particolare nel settore del cemento”.
L’azione del ministero -ha aggiunto Clini- sarà volta a “favorire e promuovere un accordo di programma tra il ministero dell’Ambiente, alcune regioni italiane e Aitec (Associazione italiana tecnico economica del cemento) sulla valorizzazione energetica del Css nelle regioni italiane che sono maggiormente esposte e tutt’ora in una grave situazione di emergenza”.

Pare proprio che l’agenda di Clini sia dettata da Aitec, che lo aveva invitato alla presentazione di uno studio di Nomisma Energia, “Potenzialità e benefici dell’impiego dei combustibili solidi secondari (Css) nell’industria”, commissionato dai produttori di cemento, che fornisce i dati sulle potenzialità dei Css derivati dai rifiuti urbani, da utilizzare in parziale sostituzione dei combustibili “tradizionali” (è in allegato). “A parità di cemento prodotto si può arrivare a sostituire 2milioni di tonnellate l’anno di combustibili fossili, pari al 50% di energia consumata” ha detto Carlo Colaiacovo di Colacem, vicepresidente Aitec (nonché membro del Comitato di indirizzo di Cassa depositi e prestiti).
Erano alcuni anni che i cementieri cercavano, in tutti i modi, di ottenere il via libera -e magari una pacca sulla spalla- in merito alla loro idea di “sostituzione” di combustibili tradizionali con combustibili “alternativi”. Segnalano, con forza il “gap competitivo” con i concorrenti europei -sebbene il rapporto tra import ed export, nel 2010, sia prossimo allo zero-, e come questo sia dovuto al fatto che nel nostro Paese sia possibile “raggiungere solo l’8% di sostituzione calorica dei combustibili fossili con quelli alternativi, come i rifiuti, contro il 61% della Germania, il 38% dell’Austria e il 27% della Francia”.
“Siamo di fronte ad un doppio paradosso -affermava nel luglio 2011 il presidente di Aitec, Alvise Zillo Monte Xillo-: il settore cementiero deve subire l’aumento dei combustibili fossili causato dalla ripresa internazionale, della quale non beneficia. In aggiunta sopporta maggiormente l’onere per lo sviluppo delle energie alternative, ma gli viene impedito di sfruttare un’importante fonte alternativa quale è il combustibile da rifiuti. Questa doppia penalizzazione si traduce in una forte perdita di competitività rispetto alla concorrenza europea”.
Al ministro Corrado Clini, che muove in difesa dei cementieri, vogliamo ricordare:

1) che la sostituzione con i rifiuti dei combustibili è sì un bisogno impellente, ma non per il ciclo dei rifiuti in Italia: serve solo a un’industria in crisi che non vuole, né sa, risolvere un problema di sovrapproduzione. Lo ha spiegato ad Altreconomia, nei mesi scorsi, Nicola Zampella, il responsabile dell’Ufficio studi dell’Aitec. Dal suo osservatorio privilegiato, certifica che l’industria è in crisi: “Nel corso degli ultimi due anni abbiamo perso più del 30 per cento (da 813 chilogrammi pro capite a testa nel 2006, a 601 nel 2009, ndr). E c’è stato un calo del 6% anche nel 2010. I nostri indicatori su edilizia residenziale, edilizia non residenziale ed opere pubbliche ci fanno attendere un mercato stabile a questi livelli bassi”. Ciò, spiega Zampella, crea problemi “strutturali” al settore: “L’industria cementiera è capital intensive -spiega-, quindi nel lungo termine non si possono mantenere gli impianti al 50-60% della capacità, perché diventano insostenibili”.
Ecco perché la possibilità di bruciare rifiuti diventa una stampella, che a bilancio trasforma delle voci negative (l’acquisto dei combustibili) in positive (perché i cementieri vengono pagati per infornare Cdr o Css).
Questa stampella, però, rischia di trasformarsi in “un cappio al collo” per il Paese. Perché il passaggio dei rifiuti urbani in combustibile solido secondario non è indolore. I primi, infatti, diventano rifiuti speciali. Ciò significa che non esiste più alcune obbligo a gestirli in loco, all’interno dell’ambito in cui vengono prodotti. E che possono essere spostati per l’Italia, e anche all’estero, finendo con l’alimentare traffici illeciti: nel 2006, ne sono sparite 31 milioni di tonnellate, circa un quarto della produzione totale. Saprà bene, il ministro Clini, già direttore del ministero dell’Ambiente, con quante difficoltà -e con quali ritardi- sia in corso il tentativo di tracciare i rifiuti speciali, introducendo il sistema Sistri.

2) Che questo processo di “trasformazione” di rifiuti urbani in rifiuti speciali finirà, inoltre, con penalizzare quelle amministrazioni virtuose che -investendo sulla raccolta porta a porta e su metodi alternativi all’incenerimento per il trattamento dei rifiuti residui- hanno ridotto la produzione pro capite di rifiuti.
Lo scrivono le Associazioni Rifiuti Zero Trapani, Messina, Catania e la Rete Rifiuti Zero Sicilia, che firmano -insieme ad altri soggetti- una lettera indirizzata a Clini, segnalando che “l’imposizione di uno strumento come l”Accordo di Programma’ evocato dal ministro, determina un ‘effetto di trascinamento’ di tutto il sistema, ingabbiato nella necessità di garantire all’industria cementiera i flussi oggetto dell’Accordo, con buona pace degli sforzi virtuosi in direzione della progressiva minimizzazione del rifiuto urbano residuo grazie a riduzione e raccolta differenziata”.
È un legame perverso, quello tra Cdr e cementifici (o comunque impianti di smaltimento), che in Puglia abbiamo “misurato” nell’obbligo del bacino BA5, cui fanno capo 21 Comuni tra cui quelli di Conversano e Mola di Bari, di produrre 470 tonnellate al giorno di indifferenziato, da destinare a un impianto per produrre Cdr. Circa 1,2 chilogrammi al giorno, per ogni cittadino dei 21 Comuni.

3) C’è, infine, un aspetto non indifferente, legato alla emissioni e ai rischi per la salute. Per riassumere il tema, porto la sua attenzione su un’interrogazione a risposta scritta che le è stata presentata nel novembre del 2011 alla Camera dei deputati dall’onorevole Miotto (cui non ha ancora risposto): “Le attuali normative, e in particolare il decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, prevedono per i cementifici dei limiti di emissione come sotto riportato: polveri totali: mg 30/Nm3; biossido di zolfo: mg 600/Nm3; ossido di azoto: mg 1.800/Nm3; sorprendentemente, per gli inceneritori (decreto legislativo 11 maggio 2005, n.133 in attuazione della direttiva 2000/76/CE) si prevedono i seguenti limiti di emissione: 
polveri totali: mg 10/Nm3; biossido di zolfo: mg 50/Nm3; ossido di azoto: mg 200/Nm3; appare evidente la macroscopica ed incomprensibile diversità dei limiti di emissione tra cementifici e inceneritori per gli stessi inquinanti, molto pericolosi per la salute. Ancora più incomprensibile risulta l’agevolazione ai cementifici se si considera che le quantità assolute in peso (concentrazione per portata) dei sopraccitati inquinanti sono normalmente assai superiori per un cementificio rispetto a quelle di un inceneritore” (sotto la tabella tratta dallo studio di Nomisma).

La invito a rispondere all’onorevole Miotto, e se lo riterrà opportuno a visitare con Lei, che di quelle zone è oroginaria l’area compresa tra i “Comuni di Este e Monselice, situati in provincia di Padova“, dove “in un raggio di soli 5 chilometri e all’interno del parco regionale dei Colli euganei (istituito con legge regionale n.38 del 10 ottobre 1989, BUR n.58 del 1989) operano ben tre cementifici”. Oppure, sempre in Veneto, potrebbe andare a Fumane in Valpolicella (Vr). Qui, in mezzo ai vigneti dell’Amarone, c’è un cementificio -di Cementi Rossi– che brucia rifiuti di vario genere. Sulla porta d’ingresso del municipio vedrà un tabellone per la misurazione in continuo delle emissioni, che stona con il contesto.
L’assessore all’Ambiente del Comune di Modugno (Bari), Agostino Di Ciaula le ha scritto -da medico a medico- per ricordarle che “la Sua proposta di legge sulla combustione di rifiuti nei cementifici, rendono opportuno ricordarLe che numerose evidenze scientifiche nazionali ed internazionali hanno dimostrato che tutte le pratiche sino ad ora citate causano danni all’ambiente ed alla salute umana. Riteniamo opportuno ricordarLe l’articolo 5 del codice deontologico dei Medici: ‘Il medico è tenuto a considerare l’ambiente nel quale l’uomo vive e lavora quale determinante più importante della salute dei cittadini. A tale fine il medico è tenuto a promuovere una cultura civile per l’utilizzo appropriato delle risorse naturali anche allo scopo di salvaguardare l’utilizzo stesso da parte delle future generazioni’”.

Detto questo, a nostro avviso questo decreto era già “scritto”. Lo si poteva leggere, tra le righe, analizzando tutti gli investimenti programmati e in corso da parte dell’industria del cemento, ovvero interventi di revamping il cui fine ultimo è rendere gli impianti adatti ad accogliere rifiuti nei propri forni.
Ricordiamo, in questa sede, quello in corso a Taranto, sull’impianto Cementir, all’interno di un’area da bonificare, uno dei 57 Siti d’interesse nazionale, che ha beneficiato di un finanziamento della Banca europea d’investimenti e di un contributo a fondo perduto della Regione Puglia, a valore sui Fondi europei per lo sviluppo regionale.
Quasi 20 milioni di euro per un intervento capace di creare 5 posti di lavoro. Immaginare un “altro” ciclo dei rifiuti, probabilmente, potrebbe portare a risultati più virtuosi.

 

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