DIOSSINA: LA VERITA’ NASCOSTA

il manifesto 2012.05.23 – 11 INCHIESTE Fusti di morte tra Seveso e Mantova

ANDREA TORNAGO

«Diossina: la verità nascosta», un libro di Paolo Rabitti per Feltrinelli

Sulla destinazione finale dei temibili fusti con la diossina di Seveso –
«uno dei veleni più potenti mai prodotti dall’uomo», la tetraclorodibenzop-
diossina (Tcdd) fuoriuscita dall’Icmesa il 10 luglio 1976 – è stato scritto
e fantasticato molto: finiti in una miniera argillosa del «blocco sovietico»
grazie alla mediazione del Pci; abbandonati in un ex mattatoio di
AnguilcourtLe Sart dall’ex paracadutista Bernard Paringaux e presi in
custodia dall’esercito francese; bruciati in Svizzera negli inceneritori della
Ciba-Geigy o da una nave-inceneritore in una rotta fantasma sul mare
del Nord; tumulati in discarica a Schönberg nell’ex Rdt.

Tra l’Icmesa e la Montedison
Paolo Rabitti, autore di Diossina: la verità nascosta (Feltrinelli, pp. 292,
euro 16), ingegnere superperito delle procure nei processi per i maggiori
disastri ambientali italiani, ci restituisce in questa «inchiesta sull’eredità
nascosta di Seveso» un finale tristemente verosimile: i fusti con la
diossina dell’Icmesa non hanno mai lasciato l’Italia, e neppure i confini
della regione Lombardia. Rabitti, che è stato consulente dell’ex pm Felice
Casson sul petrolchimico di Porto Marghera, ha collaborato con la
procura di Napoli per l’emergenza rifiuti in Campania e sta curando la
perizia sulle scorie smaltite in Lombardia sotto la nuova autostrada
«Brebemi», fa tesoro dell’esperienza acquisita nei «processi impossibili»
contro i colossi industriali per tentare di far luce su uno dei grandi misteri
italiani: l’incidente dell’estate del ’76 al reattore di triclorofenolo
dell’Icmesa e la nube letale di diossina che investì i vicini comuni di
Seveso, Meda, Cesano Maderno, Desio, Bovisa. La sua indagine
suggestiva, che riesce anche a dimostrare come il reattore dell’Icmesa
fosse congegnato per la produzione di diossina per l’industria militare,
parte da un dettaglio, un’invisibile evidenza che è sempre stata sotto gli
occhi di tutti: due binari ferroviari, discreti e sicuri, che collegano
l’Icmesa di Seveso alla Montedison di Mantova.

La «pista italiana»
Portare ad ogni costo le scorie dell’Icmesa «fuori dall’Italia» era la
missione ufficiale del senatore andreottiano Luigi Noè, a capo dell’Ufficio
speciale Seveso dal 1979 dopo diversi anni passati ad occuparsi di scorie
nucleari ai vertici dell’Enea. Secondo la versione ufficiale, la notte del 10
settembre 1982 Noè avrebbe seguito personalmente il carico con la
diossina fino a Ventimiglia, al valico con la Francia. Cosa sarebbe
accaduto poi ai fusti che contenevano le terre di bonifica e i residui del
reattore A101 poco importava, il problema era liberarsi dell’incubodiossina,
poter dire che il pericolo era lontano da Seveso e da Milano, in
un luogo segreto e ovviamente «al sicuro». I fusti sarebbero diventati,
come riporta Rabitti, il vero «spettro» in giro per l’Europa: secondo i
francesi non c’è alcuna traccia di quel passaggio alla dogana di
Ventimiglia. L’ex ufficiale paracadutista Paringaux, cui Noè affidò il carico
letale, fu arrestato poco dopo per aver trasportato illegalmente i rifiuti in
territorio francese, ma nemmeno davanti ai giudici rivelò dove si
trovavano i fusti. E se semplicemente non fossero mai usciti dall’Italia?
Torniamo a Mantova. Nel 1975 la Montedison inaugura un inceneritore
per rifiuti pericolosi all’avanguardia in Europa, in grado di bruciare le
scorie a una temperatura di oltre 1000 gradi centigradi, temperatura alla
quale si credeva erroneamente di poter distruggere la molecola di
diossina. Tra gli stabilimenti Montedison e Icmesa era attivo un
collegamento ferroviario. E in molti a Mantova ricordano un episodio
dell’estate dell’80, quando all’improvviso le foglie delle piante rivolte
verso il petrolchimico diventano gialle, le altre rimangono verdi. Alberi
che d’improvviso si sono seccati e sono morti, come quelli del Vietnam
sotto l’Agent Orange alla diossina sparato dai marines. Il racconto si
sposta poi dieci anni più tardi, quando un medico di base comincia a
riscontrare un inspiegabile aumento di sarcomi dei tessuti molli nella
popolazione vicino al petrolchimico di Mantova, un tumore raro
direttamente associato alla diossina di Seveso (Tcdd).

I fusti con la Tcdd partiti dall’Icmesa il 10 settembre 1982 (foto a sinistra); i bidoni ritrovati ad Anguilcourt-Le Sart, in Francia, il 19 maggio 1983 (foto a destra). Come si può notare, quelli partiti hanno cerchiature metalliche tipiche dei fusti Enea per il trasporto delle scorie nucleari, quelli ritrovati sono invece semplici bidoni.
L’autore lo specifica più volte: non posso affermare che la diossina
dell’Icmesa sia stata bruciata a Mantova. «La pistola fumante non c’è
scrive Rabitti – però ci sono le tracce del passaggio dell’assassino, ci sono
le vittime, non manca l’impronta digitale». C’è la scomparsa di 35mila
metri cubi di terre scavate nella «zona A» di Seveso; c’è l’incertezza sulla
sorte di 1600 tonnellate di prodotti clorurati stoccati nell’azienda che,
secondo l’Ufficio speciale, «sembra siano andate alla combustione nel
mare del Nord». C’è la confessione, in punto di morte, di un ex operaio
della Montedison. C’è la prova, come dimostrato dai documenti
fotografici, che i fusti ritrovati nell’83 ad Anguilcourt-Le Sart non sono
uguali a quelli partiti dall’Icmesa.

L’eredità di Seveso
Ma soprattutto c’è la ragionevole consapevolezza che non vi era alcun
motivo di portare a tutti i costi la diossina fuori dal territorio italiano,
tessendo intrighi internazionali, sborsando miliardi di lire e accumulando
segreti, e ricatti, in giro per l’Europa. La questione del disastro
dell’Icmesa si poteva regolare benissimo nell’«eccellente» Lombardia. In
Diossina si possono trovare tutti gli elementi di quell’inquietante
«sistema» in cui ancora oggi sprofonda la regione «locomotiva d’Italia»:
imprese che nascondono o falsificano i dati, autorità sanitarie che non
controllano, studi epidemiologici che non concludono mai nulla, stampa
imboccata con informazioni e scoop pilotati. Eredità dei «giorni del
silenzio» di cui parla anche Andrea Palladino nel suo Trafficanti (Laterza):
quegli interminabili otto giorni del luglio ’76 in cui la popolazione ha
continuato ignara a vivere, camminare, mangiare, respirare in mezzo alla
diossina.

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